Crisi occupazionale e sbarramento a valle non frenano le nuove iscrizioni. Tommaso dalla Massara: "Restituire dignità alla laurea in giurisprudenza"

Università 2020-2021: matricole in aumento a giurisprudenza

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Il dato occupazionale peggiore fra tutte le classi di laurea, lo sbarramento arbitrario "a valle" che impedisce di lavorare e, su tutto, la spada di Damocle socio-economica del post Covid. Contro ogni ragionevole previsione, la crisi di giurisprudenza non ha scoraggiato le nuove matricole, che in tutta Italia, nell'annus horribilis 2020, sono tornate all'assalto delle facoltà di Legge. Secondo i primi dati parziali diffusi dalla stampa, l'incremento registrato supera il 30% in tutte le sedi disponibili, con impennate locali che toccano addirittura il 71,7% e il 102% rispetto all'anno precedente. In attesa di conoscere il dato definitivo nazionale, una circostanza è dunque molto chiara: la contrazione degli iscritti dovuta al Covid, attesa e temuta da più parti nei mesi scorsi, non si è verificata. E così, mentre i loro "fratelli maggiori" già laureati subiscono l'umiliazione di una disparità di trattamento rispetto a tutte le altre professioni (per le quali sono state introdotte, causa Covid, modalità più rapide e semplificate per l'accesso al mondo del lavoro), le nuove leve del diritto sembrano dormire sonni tranquilli. Forti di un accesso libero e non selettivo al corso di laurea, le grandi schiere di neomatricole fanno rivivere per un momento il sogno dei bei tempi d'oro del diritto: gli anni della ripresa economica, dell'università di massa e della corsa alla toga; gli anni dello scarso numero di avvocati (nemmeno 50.000 nel 1988) e dei lauti guadagni della libera professione, che lasciavano la magistratura e i concorsi "superiori" ai pochi giovani realmente motivati alla funzione pubblica. Peccato che negli ultimi trent'anni lo scenario sia cambiato. E non poco.

L'esame di avvocato sospeso con un post su Facebook

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Solo un anno fa il ministro Alfonso Bonafede, prendendo la parola di fronte al Consiglio Nazionale Forense, dichiarava che l'esame di avvocato, a suo giudizio, "non risponde a criteri di razionalità e troppo spesso si presta a esiti casuali e non sempre rispondenti agli effettivi meriti degli aspiranti avvocati" (Roma, 2 ottobre 2019). Un anno più tardi, di quella dichiarazione pubblica restano solo la delusione e la rabbia di decine di migliaia di giovani professionisti, che hanno atteso invano un seguito politico coerente. Lo stesso ministro, il 5 novembre scorso, ha invece affidato a un post su Facebook la comunicazione che l'esame di Stato, da svolgersi beninteso nelle solite modalità "irrazionali" e "casuali", sarebbe stato sospeso sine die causa Covid. L'ennesimo schiaffo a una generazione di professionisti e alle tante associazioni di praticanti che hanno sollecitato per tempo, senza essere ascoltate, una soluzione alternativa a un problema ben prevedibile.

Dalla Massara: "Restituire dignità alla laurea in giurisprudenza"

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Tommaso dalla Massara, ordinario di Istituzioni di diritto romano e Fondamenti del diritto privato europeo dell'Università di Verona, oltre che direttore scientifico del festival del placement "Univerò", già nei mesi scorsi si era espresso a favore del numero programmato a giurisprudenza.

Oggi, alla luce dei recenti sviluppi, torna a sollecitare una riflessione non più differibile sugli esiti occupazionali e sulla riforma del corso di laurea.

Professore, è ancora il momento di pensare al numero programmato per giurisprudenza?

In una conversazione che ho avuto a inizio agosto con i rappresentanti di Cogita (Coordinamento giovani giuristi italiani) mi ero pronunciato a favore del numero programmato per il corso di laurea magistrale in giurisprudenza. Quella mia posizione aveva suscitato un certo dibattito e comprendo bene perplessità e critiche. Il corso di laurea magistrale in giurisprudenza vive ormai da tempo un periodo di crisi, che è crisi di contenuti e di qualità, prima ancora che di "vocazioni"; e poi l'anno orribile 2020, nella drammatica concatenazione che vede assieme la pandemia e una crisi economica in grado di mettere in seria difficoltà le famiglie, sembrava destinato a falcidiare ulteriormente le iscrizioni a giurisprudenza. Invece le cose non sono andate così: i dati nazionali ci dicono questo. Tanto meglio. Problema risolto, quindi? No, credo che proprio dall'elaborazione delle difficoltà si debba ripartire: però, non ponendosi sul piano di una rincorsa al ribasso. Tutt'al contrario, sforzandoci di vedere dove si può investire in qualità. Il corso di laurea magistrale in giurisprudenza non è chiamato necessariamente a fare grandi numeri; invece è giusto che metta sul mercato laureati in grado di trovare un'occupazione adeguata al percorso prescelto. Questo è il vero tema.

Perché dunque il numero programmato? Ci spieghi meglio.

Affrontiamo, per una volta, il problema di giurisprudenza prendendo il tempo a ritroso: intendo dire, dal mercato del lavoro verso il percorso formativo. Se le professioni legali continuano a richiedere un certo numero di occupati, il percorso per giungere a queste deve essere adeguato: qui, per conto mio, vale pienamente il parallelismo con il corso di laurea in medicina. Oltre alle professioni legali, vi sono poi tanti altri sbocchi lavorativi dopo la laurea magistrale in giurisprudenza? Benissimo, anche per questi il percorso sia serio, di alto livello professionalizzante e culturale (fondamentale questo!), e poi mantenga le promesse a livello di placement. Al di là della laurea magistrale, ci sono poi spazi enormi che si aprono per i percorsi triennali, tanto con orientamento verso il mondo delle imprese quanto verso le pubbliche amministrazioni: i nuovi settori, la sfida del digitale, l'assistenza alle esportazioni etc. Qui l'obiettivo non è rappresentato dalle professioni ordinistiche: e allora si lasci campo all'autonomia degli Atenei. Per le triennali, non vedo alcuna necessità di numero programmato. Soltanto il mercato del lavoro dovrebbe indicare il successo o l'insuccesso di quel percorso formativo.

Non si rischia di eccedere in senso opposto, ossia di deprimere il numero, già basso, dei laureati in Italia?

Se si tiene conto di questo scenario, considerando nell'insieme magistrale e triennale, credo che la proposta di numero programmato per la laurea magistrale in giurisprudenza non si ponga affatto in contraddizione con l'esigenza, giustamente messa in risalto dal Ministro Manfredi, di non diminuire il numero complessivo dei laureati in Italia. Semmai potrebbe esserci un ribilanciamento dei numeri della laurea magistrale e quelli della triennale. Però prima ancora di questo, vale dal mio punto di vista la necessità di restituire dignità e appetibilità alla laurea in giurisprudenza: è sempre stata una laurea (anche) professionalizzante. Fino a vent'anni fa nell'opinione collettiva era posta accanto a medicina e a ingegneria. E oggi? Appare svilita, banalizzata e quasi privata di anima e di fascino.

Cosa serve per un rilancio della laurea in giurisprudenza?

Per un rilancio della laurea in giurisprudenza occorre il coraggio di mettere in campo alcuni giusti investimenti. Sappiamo che il Ministero dell'Università sta lavorando a una seria progettazione da portare al tavolo nel quale saranno distribuite le risorse del Recovery Fund. Saranno sicuramente fatti sforzi eccezionali per tutto ciò che ha a che fare con innovazione, digitale, tecnologie, salute e via dicendo: è giusto così. Ma non vorrei che le STEM andassero a consumare tutte le risorse; e poi potrebbe magari esserci attenzione pure per l'area umanistico-culturale, ma non vorrei che a rimanere stritolata fosse proprio giurisprudenza, come se - posta lì a mezza via - non risultasse degna di particolare attenzione. E questo magari per mancanza di visione, per attaccamento a schemi stanchi, se non addirittura per una visione quasi burocratica del corso di laurea in giurisprudenza. Nulla di peggio che banalizzare giurisprudenza, solo perché non si ha la fantasia di vedere come potrebbe diventare. Penso allora che molte sperimentazioni virtuose che si stanno compiendo in tante sedi possano essere di esempio: al di là di stage e tirocini (nei tribunali, negli studi legali etc.), si trovino le risorse per molte forme di didattica innovativa che sono in grado di favorire un reale inserimento nel mondo del lavoro. Penso per esempio ai laboratori di scrittura, alle simulazioni processuali, alle cliniche legali etc.

In concreto, a cos'altro pensa se prova a immaginare un corso di laurea magistrale in giurisprudenza del futuro?

In concreto e per esemplificare meglio quello che intendo dire: come si può pensare che un laureato magistrale in giurisprudenza debba fare affidamento alle competenze di scrittura che gli è capitato di formarsi durante gli studi superiori? Spesso capita che il percorso d'esami sia tutto orale (fondato su pure conoscenze, senza attenzione alcuna per le competenze) e poi soltanto in sede di tesi di laurea lo studente faccia la scoperta che la scrittura giuridica pone invece problemi particolari e assai delicati. Vogliamo negare che qui valga - ancora una volta - il parallelismo con medicina? Ossia non possiamo renderci conto che occorre imparare a operare un paziente tanto quanto è necessario imparare a scrivere un contratto, una sentenza o un atto di citazione? Questo implica impiego di risorse - neppure troppe, peraltro, e per lo più a vantaggio di giovani ricercatori - per l'Università e proprio questo consentirebbe l'inserimento nel mondo del lavoro abbreviando di molto quegli interminabili periodi di apprendistato che oggi lo separano dalla laurea.

Foto: 123rf.com
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