Assodato, quindi, che l'impugnata circolare non è che un vero e proprio provvedimento mirante ad integrare surrettiziamente il complesso delle malattie c.d. ?tabellate?, essa viola palam et aperte l'art. 10, c. 1 del Dlg 38/2000, nella misura in cui siffatta integrazione deriva non già dal rigoroso accertamento da parte della Commissione scientifica per l'elaborazione e la revisione periodica delle tabelle ex artt. 3 e 211 del DPR 1124/1965, né tampoco dall'espressa volizione dei Ministeri a ciò competenti, bensì da un comitato interno all'ente e senza le garanzie, pure partecipative, recate dal citato Dlg 38/2000. In secondo luogo, detta circolare è stata emessa senza tener conto delle direttive all'uopo emanate dal Comitato d'indirizzo e vigilanza ? CIV dell'ente in data 20/ 26 novembre 2001, segnatamente nella parte in cui quest'ultimo incaricò gli organi di gestione d'integrare il predetto comitato con medici di fiducia delle parti sociali e di svolgere uno studio e l'esame sugli orientamenti della giurisprudenza sulla complessa tematica del mobbing, come si vede del tutto disattesi nella procedura di formazione e nel contenuto stesso della circolare medesima. Viceversa, non pare al Collegio significativa la censura attorea sulla circostanza che la tematica del mobbing sia attualmente all'esame degli organi dell'Unione europea ai fini d'una regolamentazione comune, essendo ciò inopponibile alla volontà dei singoli Stati membri che, nelle more, intendano provvedervi, senza che ciò impedisca il giudizio di compatibilità tra la norma nazionale e l'eventualmente difforme norma europea. Se non può il Collegio seguire l'assunto attoreo in ordine all'opportunità o meno dell'emanazione in sé dell'impugnata circolare .perché ciò si risolve essenzialmente in una censura di merito ., si deve invece condividere il motivo d'impugnazione che contesta il contenuto dell'interpretazione evolutiva colà propugnata. Invero, ad una serena lettura della circolare e, in particolare, della parte relativa alla necessità d'adeguarsi alle nuove forme d'organizzazione dei processi produttivi, questa si basa su un'erronea lettura del sistema c.d. ?misto? della tutela del lavoratore dagli infortuni sul lavoro e dalle malattie professionali. Detto sistema, per vero, si basa sì sull'indennizzo sia delle malattie c.d. ?tabellate?, sia delle patologie non predefinite, ma solo nel senso che la malattia professionale è indennizzata, indipendentemente dalla sua inclusione nelle tabelle allegate al DPR 1124/1965, se ne sia accertata la sua derivazione causale dall'esercizio d'una delle lavorazioni di cui al precedente art. 1. Non v'è, quindi, indennizzo se non per il rischio lavorativo specifico, onde non basta affermare la rilevanza in sé delle malattie non ?tabellate?, occorrendo verificare se esse diano luogo all'esposizione del lavoratore ad una specifica lavorazione morbigena, ossia assunta come in sé pericolosa direttamente dal legislatore. Il limite legislativo dell'assicurazione sociale contro gli infortuni sul lavoro si base, come rettamente affermano i ricorrenti, proprio sull'equilibrio tra requisiti soggettivi ed oggettivi ai fini della concessione dell'indennizzo, senza possibilità di forzature, quale quella rinvenibile nel contenuto dell'impugnata circolare, del sistema c.d. misto dell' assicurazione contro gli infortuni del lavoro. Parimenti da accogliere è la censura attorea sull'irrigidimento della definizione di costrittività organizzativa, quale pratica morbigena indennizzabile, in assenza non solo di un'esatta definizione normativa della stessa e di univoci indirizzi della giurisprudenza, ma soprattutto del doveroso approfondimento scientifico-medico al riguardo. Osserva invero il Collegio, con ciò condividendo la censura attorea sul punto, che non è legittimo, né possibile ricondurre tutte le dinamiche delle relazioni di lavoro all'interno di un'impresa alla c.d. ?costrittività organizzativa?, giacché essa non è certo la garanzia del ?diritto? del lavoratore ad operare in un ambiente professionale asettico, irenico o, comunque, cordiale, al più potendosi pretendere comportamenti di buona fede da tutte le parti del rapporto di lavoro, indipendentemente, quindi, dai dati caratteriali dei singoli attori di quest'ultimo. Osserva altresì il Collegio che l'impugnata circolare tende a confondere, attraverso il predetto irrigidimento definitorio, il mobbing quale fonte di risarcimento con vicende illecite che già l'ordinamento reprime a favore della dignità del lavoratore, in particolare in base all'art. 2708 c.c. ed all'art. 9 St. lavor., nonché contro le condotte discriminatorie, di cui al successivo art. 15, I c., lett. b).
Tar Lazio sez. III - ter, sentenza n° 5454/2005

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