La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. 3368/2005) ha stabilito che la riduzione (o comunque il mantenimento), di una persona più debole in uno stato di soggezione continua (che va dalla costrizione a prestazioni lavorative o sessuali, all'accattonaggio o a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento), comporta una condanna per il reato di riduzione in schiavitù. Con questa decisione i Giudici del Palazzaccio hanno delineato gli elementi costitutivi della nuova figura criminosa introdotta (modificando l'art.600 del codice penale) dalla L. 228/2003 che richiama la Convenzione di Ginevra del 1926. Tale convenzione definisce come schiavitù il fatto di esercitare su una persona i poteri spettanti al proprietario, e quindi in buona sostanza il fatto di considerare un essere umano come un oggetto di proprietà. Infine la Corte ha chiarito che "la riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona" e che la fattispecie "richiede una condotta del soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno, abuso di autorità, o approfittando di situazione di inferiorità".
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