di Marco Massavelli - Corte di Cassazione Civile, Sezione Lavoro, sentenza n. 23949 del 22 ottobre 2013. Per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con l'effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza 22 ottobre 2013, n. 23949.

Essenziale è però provare la condotta persecutoria del datore di lavoro, e soprattutto, affinché venga risarcito il danno patito, i fatti successivi all'evento iniziale devono sempre essere ricondotti alla domanda principale del giudizio. Non è possibile, come nel caso di specie, formulare in appello domande nuove per ottenere il risarcimento del danno per fatti diversi rispetto a quelli contestati in primo grado; occorre, al contrario, incardinare un nuovo giudizio. E' quindi inammissibile la domanda, rispetto a quella originariamente proposta al primo giudice del merito, fondata su circostanze non comparse in primo grado e sulle quali non si è validamente costituito contraddittorio. Nè tali domande possono essere introdotte ex novo in corso di causa, posta l'operatività delle preclusioni di cui all'art. 167 codice di procedura civile.


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