di Filippo Lombardi - Commento a Cass. pen. sez. I, 20 giugno 2013, n. 27161. 


Massima.

L'elemento soggettivo nel delitto preterintenzionale è costituito dal dolo che regge l'atto volto a conseguire l'effetto meno grave; esso è idoneo ad assorbire la prevedibilità dell'evento più grave concretamente verificatosi. 


Commento. 


1. Il criterio di imputazione dell'evento piu' grave. L'evoluzione giurisprudenziale.

La preterintenzione rappresenta uno dei criteri di imputazione soggettiva annoverati dall'articolo 42 c.p. idonei a collegare psicologicamente il fatto penalmente rilevante all'autore dello stesso.

Recita infatti la norma (art. 42, comma 2 c.p.): "Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l'ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge".

Nel codice penale troviamo un solo riferimento al delitto preterintenzionale, all'articolo 584 c.p., che punisce l'omicidio preterintenzionale (l'altra figura extra-codicistica è quella dell'aborto preterintenzionale, che differisce per l'evento: la "morte" del feto; è prevista dall'art. 18 Legge 194/1978). Esso si verifica quando un soggetto, compiendo atti diretti a percuotere o ledere, cagiona la morte di un uomo.

La tipologia di delitto in esame ha suscitato questioni ermeneutiche di ingente spessore; in particolare ci si è chiesti:

a) quale sia effettivamente l'elemento soggettivo che cagiona la reità dell'agente;

b) quali siano i confini con fattispecie simili come il reato aggravato dall'evento, la morte o lesione conseguente ad altro delitto, e l'aberratio delicti.

 

Per quanto qui di interesse, si consideri il quesito sub lett. a), rispetto al quale molteplici sono state le prese di posizione di dottrina e giurisprudenza susseguitesi negli anni.

Prima che la giurisprudenza costituzionale si "schierasse" a sfavore della categoria della responsabilità oggettiva con le note sentenze 364 e 1085, entrambe del 1988, la tesi propugnata rimarcava che la preterintenzione si fondasse sulla combinazione di dolo e imputazione obbiettiva. Più precisamente, il dolo afferiva alla prima porzione di condotta, l'aver compiuto atti diretti a ledere o percuotere, mentre l'evento più grave (morte) veniva imputato considerando irrilevante la sussistenza di dolo o colpa: vale a dire con l'applicazione della responsabilità oggettiva.

Tale impostazione divenne obsoleta nel momento in cui si prendeva atto che ogni elemento costitutivo della fattispecie, cioè ogni elemento in grado di costituire o approfondire l'offesa al bene giuridico tutelato dalla fattispecie criminosa, dovesse essere coperto da dolo o colpa, in quanto veniva reputata imprescindibile la riferibilità psichica quantomeno colposa del fatto all'autore.

Si giunse a sostenere che, pur essendo il fatto ancora frazionabile tra il momento della condotta (necessariamente sorretta dal dolo) e la fase che va dall'inizio del fenomeno eziologico fino alla consumazione dell'evento vietato e più grave (morte), dovesse ammettersi che la predetta seconda porzione del fatto dovesse essere retta dalla colpa (non dal dolo, altrimenti si sarebbe configurato l'ordinario omicidio ex art. 575 c.p.).

Tale impostazione, certamente più rispondente al parametro della colpevolezza cristallizzato nell'art. 27 Cost., poneva però ulteriori problemi definitori. Ci si chiedeva, infatti, quale fosse la tipologia di colpa da applicare nel caso in esame.

Ammettendo l'operatività della colpa specifica, conseguiva la necessità di rinvenire la regola precauzionale violata (legge, regolamento, ordine o disciplina). A tale problematica si cercava di rimediare fornendo la seguente risposta: la norma cautelare violata è, a seconda dei casi, l'art. 581 o 582 del codice penale, cioè la norma che vieta le percosse o la norma che proibisce le lesioni.

Si cadeva in un paradosso, che autorevole dottrina non stentava a far emergere, vale a dire la possibilità di considerare le norme penali come norme che al contempo vietano e ammettono un comportamento. In altri termini meno tecnici, e a titolo esemplificativo, dalla norma sulle percosse discenderebbe la seguente portata letterale: "Non percuotere ma, se devi farlo, fallo bene evitando di trascendere i limiti della fattispecie di percosse".

Ciò costituiva, per gli interpreti, un corto-circuito giuridico difficilmente superabile e dunque l'evoluzione fu nel senso di far operare la colpa generica in luogo di quella specifica.

In tal modo l'evento morte poteva essere addebitato al reo solo se, col rispetto di regole di diligenza generali, e dunque con un minimum di attenzione in più derivante dalla comune esperienza, l'evento fosse prevedibile in concreto sulla base delle circostanze fattuali.

Tale tesi è stata di recente superata (si veda Cass. pen., sez. I, 19611/2006) attraverso una riflessione più profonda che coinvolge la struttura della norma. L'equivoco per cui il fatto illecito sia scomponibile in due frazioni ha generato l'assunto, costante nella giurisprudenza pregressa, per cui anche l'elemento soggettivo dovesse essere in qualche modo sdoppiato.

Tale concettualizzazione è in realtà errata.

Il fatto illecito deve essere considerato dal punto di vista unitario, come condotta sviluppatasi in modo che col compimento di atti diretti a ledere o percuotere si generi un evento non voluto.

Dalla visione unitaria della fattispecie obbiettiva discende una considerazione di pari natura circa l'elemento soggettivo occorrente: anch'esso è unico e consiste nel dolo di percosse o lesioni, il quale assorbe la prevedibilità dell'evento più grave cagionato in concreto.

Quello citato è l'approdo ultimo della Giurisprudenza di Legittimità, espresso dalla sentenza in commento e da altre recentissime pronunce (Cass. pen. 791/2012; 35582/2012; 40389/2012), e consente di svolgere alcune osservazioni.

La prima osservazione è sulla struttura del delitto preterintenzionale: esso è caratterizzato, dunque, dalla unitarietà. Il soggetto agente non realizza più condotte bensì una singola azione (nel caso di condotta tesa a ledere, si ritiene configurabile anche la preterintenzione in forma omissiva).

Dalla struttura unitaria deriva altresì l'unicità dell'elemento soggettivo.

Tale carattere consente di svolgere la seconda osservazione, volta a comparare il delitto preterintenzionale con l'aberratio delicti, poiché in dottrina è stata avanzata l'ipotesi che il primo altro non sia se non una aberratio delicti eiusdem generis.

 

2. Il rapporto tra la tesi in commento e la ricostruzione dottrinaria del delitto preterintenzionale in chiave di aberratio delicti eiusdem generis.

L'aberratio delicti si verifica quando un soggetto, per errore esecutivo o altra causa, cagiona un evento diverso da quello voluto (art. 83 cod. pen.): egli risponderà a titolo di colpa dell'evento non voluto, se questo configura un reato punito dalla legge come colposo.

Si configura dunque una aberratio delicti eiusdem generis quando l'evento non voluto offende  un bene giuridico che, seppur diverso per certe sfumature, possa essere inserito nello stesso genere del bene nei cui confronti l'azione lesiva veniva diretta. Nel caso del delitto preterintenzionale, la vita (bene diverso in concreto leso) e l'integrità fisica (bene alla cui offesa ambiva il soggetto agente) sarebbero inglobabili nel medesimo genere dell'incolumità individuale e su tale argomentazione si fonderebbe la comunanza tra le due fattispecie.

La tesi per cui il delitto preterintenzionale sia una aberratio del tipo testé richiamato incontra però un punto di frizione in tema di controllo sull'elemento soggettivo.

L'inciso "a titolo di colpa" contemplato nell'art. 83 c.p., omettendo riflessioni dottrinarie superate poiché incentrate sul riconoscimento della responsabilità oggettiva, deve essere inteso come produttivo di un obbligo in capo all'interprete, avente ad oggetto il controllo effettivo sulla sussistenza di un minimum di riferibilità psichica all'agente, attraverso il noto parametro della prevedibilità in concreto.

In altri termini, per quanto concerne l'aberratio delicti, si ritiene che l'agente debba rispondere dell'evento diverso da quello voluto solamente se esso fosse in concreto prevedibile, date le circostanze del fatto di specie e le conoscenze del reo.

Tale modalità di controllo dell'elemento soggettivo non è accettata dalla Giurisprudenza in tema di delitto preterintenzionale, laddove, aderendo all'impostazione seguita dagli orientamenti post-2006, si ritiene la prevedibilità assorbita dall'elemento soggettivo concernente il reato principale. Vale a dire che non vi è spazio per un controllo dell'interprete, poiché è sufficiente che il soggetto agente sia stato in dolo rispetto alla condotta volta a ledere/percuotere, non richiedendosi il vaglio della colpa rispetto all'evento più grave non voluto (vaglio invece richiesto nell'ambito dell'aberratio).

Ciò forse si comprende riflettendo su un dato: nel reato aberrante, il diverso risultato può essere totalmente avulso dal genus a cui appartiene il bene giuridico che il reo voleva offendere; nel delitto preterintenzionale, la presunzione di previsione/prevedibilità può dipendere dal fatto che il soggetto agente colloca la sua condotta in un ambito dai confini ben delineati e facilmente noti, essendo quest'ultima dotata intrinsecamente di caratteristiche idonee a farla fuoriuscire dai limiti che segnano i normali esiti infausti.

Dato il campo ristretto di eventi con cui il reo può "interagire", si considera che lo stesso, inteso come agente medio, possa e debba sapere, sin dall'inizio dell'attività illecita, che essa può trascendere i limiti di quanto voluto.   

Posto che si verifica un assorbimento dell'elemento colposo nell'elemento doloso, ciò è idoneo ad aprire un dibattito circa la sussumibilità di tale assorbimento nel concetto di culpa in re ipsa.

Dare risposta affermativa al quesito testé formulato consentirebbe a sua volta di riflettere sulla compatibilità di tale figura con l'articolo 27 Cost., in senso potenzialmente negativo.

In altri termini, se è vero che l'assorbimento della prevedibilità poggia su un parametro di ragionevolezza per l'uomo comune, ci si chiede se tale assorbimento possa essere oggettivizzato ed universalizzato, distogliendo l'operatore del diritto da qualsiasi controllo concreto a riguardo.    

Dott. Filippo Lombardi
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