di Carmelo Cataldi L'esecutivo italiano, negli ultimi anni, ci ha abituati a essere spettatori di flagranti violazioni dei diritti umani, in nome di una non meglio precisata tutela della sicurezza nazionale, tutte stigmatizzate successivamente dagli organismi internazionali (OSCE, CE, CEDU, CIG) anche con sentenze epocali, che ci hanno retrocesso agli ultimi posti nella classifica dei paesi virtuosi sotto il profilo del rispetto della vita e della dignità umana.


In questi giorni di tiepida estate un caso infuocato, sia sotto il profilo politico che giuridico,  sta mettendo a rischio il traballante attuale governo Letta, e non si tratta di modelli di lavoro e ricerca di risorse economiche o soluzioni di natura finanziaria sul bilancio dello Stato e non sono neanche i problemi legati alle vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi, bensì questioni legate al rispetto dei diritti umani, quelli di una bambina e di sua madre, entrambe di nazionalità kazaka, vittime della insensibilità di uno Stato, che sottoscrive tutte le dichiarazioni sui diritti dell'uomo, tutte le convenzioni sui diritti umani, ma che periodicamente le viola in nome di interessi prettamente politici e a volte nemmeno quelli, ma forse per questioni di natura personale e  di interessi particolari.


La signora Alma Shalabayeva e sua figlia Alua, moglie e figlia del noto dissidente politico kazako Mukhtar Ablyazov, dopo una serie spaventosa di atti di polizia, al limite anche della comprensione umana, in barba a tutte le convenzioni internazionali ratificate dall'Italia dal 1948 in poi e in violazione del principio di non refoulement previsto dall'art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951, sono stati nel giro di appena tre giorni, con una celerità amministrativa unica nella storia italiana, separati, ricongiunti e estradati verso il proprio paese, il Kazakistan, dove esistono serie possibilità di pericolo per la propria incolumità e integrità fisica.


Il principio di non-refoulement, che garantisce la protezione a chi fugge da paesi in cui esistono costanti violazioni dei diritti umani, conflitti o altre minacce alla vita o alla libertà individuali, è una delle pietre fondanti del diritto internazionale dei rifugiati, tanto da assumere nel tempo la forma di una vera e propria norma di diritto internazionale consuetudinario, imponendosi giuridicamente come vincolante anche per tutti quegli Stati non firmatari della Convenzione di Ginevra.


Questo principio, seppur datato, prevede che : "Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche", facendo desumere così che un divieto di respingimento si trova alla base di qualsiasi prodromica attività diretta all'ammissione alla frontiera, ai trasferimenti forzati, espulsione, estradizione e qualsiasi altro trasferimento informale, principio a cui è possibile derogare soltanto se alla base delle decisioni vi sono seri motivi per cui un rifugiato possa essere considerato un pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede o una minaccia per la collettività, elementi questi non riscontrabili palesemente nel caso della signora Shalabayeva e della figlia Alua.


Di contro si potrebbe affermare che questa espulsione/allontanamento, come altri due precedenti, quello relativo al sequestro e deportazione in Egitto  dell'imam Abu Omar e il respingimento Hirsi, è un caso da manuale, in cui ciò che è stato realizzato era proprio quello che non doveva essere fatto!


Per il caso Abu Omar si sono espressi sia un giudice di merito che d'appello italiano i quali hanno fatto rilevare, , oltre alle violazioni di natura penale, un degrado nei confronti del rispetto per i diritti umani e le leggi internazionali, nelle attività di polizia  e di sicurezza, di alcuni organi, anzi di alcuni rappresentati dello Stato, mentre per il caso Hirsi la CEDU è intervenuta pesantemente nei confronti dell'Italia condannandola e imponendole di garantire la non ripetizione delle violazioni dei diritti umani e di relazionare, al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, sulle modalità che intenderà applicare per dare esecuzione alla predetta condanna.


Come ogni norma e convenzione anche quella sullo status di rifugiato del 1951 prevede delle eccezioni al principio di non refoulement, sulla scorta del contemperamento tra esigenze e diritti individuali e quelli collettivi e nazionali, dove ovviamente i secondi dovrebbero prevalere sui primi se non vi fosse l'eccezione dell'eccezione secondo cui la prima non si applica nel caso in cui  vi siano fondate ragioni per ritenere che nel Paese di provenienza l'individuo possa subire torture o pene crudeli inumane o degradanti,  così come sancito dalla Convenzione contro la tortura del 1984. Questo principio di distinzione valeva già per il caso Abu Omar, come i fatti sembra abbiano poi dimostrato ampiamente, valeva per il caso Hirsi e oggettivamente ha rilievo nella vicenda della signora Shalabayeva.


Qualcuno potrebbe obiettare che nel caso specifico della signora kazaka la stessa non era stata ancora riconosciuta formalmente rifugiata, anche se la Shalabayeva aveva addirittura presentato documentazione al MAE per ottenere lo status di console onorario di una nazione di cui aveva anche il  passaporto, oltre ad avere documenti che ne attestavano il permesso di soggiorno in Gran Bretagna per asilo politico e in Lettonia per ragioni di lavoro, ma perché tale principio trovi applicazione non è necessario che sia amministrativamente decretato lo status di rifugiato, in quanto il presupposto ha natura prettamente soggettiva.


Seppur l'Italia, dopo la sentenza Hirsi, proprio circa un anno fa ha proclamato una rinuncia formale alla politica dei respingimenti, attraverso una nota ufficiale del Governo italiano al Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, in cui si sottolineava l'assenza di pericoli per cui si sarebbero potute ripetere violazioni analoghe, in considerazione del fatto che le persone vengono accompagnate in specifici centri in Italia, valutandone le rispettive posizioni individuali nel territorio nazionale e nel rispetto di tutte le garanzie in materia di diritti umani, la sensazione è che se la Shalabayeva, anche a nome della figlia, si dovesse costituire presso la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, le conseguenze per la nostra nazione, facendo salve le responsabilità e le ripercussioni per l'attuale esecutivo, per quanto ancora esso rimarrà in vita, saranno di notevole impatto sullo scenario giuridico e politico internazionale.


di Dr. Carmelo Cataldi

Consulente Giuridico in D.I.U e D.O.M.


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